
Durante le torride giornate di agosto mi sono ritrovato a fare quattro chiacchiere con un amico d’infanzia.
Entrambi lavoriamo in IT: io sui tavoli tecnici, dove ci si arrabbia per un bit fuori posto, e lui sui tavoli commerciali, dove si tenta di vendere le idee che una massa di nerd partorisce senza sosta.
Background diversi, un modo parallelo di vedere la vita e il lavoro, ma con parecchie similitudini quando si parla di fallimenti e successi.
La riflessione che abbiamo iniziato davanti a un cappuccino e un cornetto si è rapidamente trasformata in un’analisi delle dinamiche che portano al fallimento delle startup tecnologiche.
Guido, spero mi perdonerà se prendo in prestito alcune delle sue intuizioni per la scrittura di questo articolo.
Benvenuti nel mattatoio delle buone intenzioni
Secondo alcuni studi, il 90% delle startup è destinato a fallire.
Potete trovare una desolante statistica su explodingtopics, ma non è l’unico punto della rete dove si può trovare questa scoraggiante statistica.
Dire che il 90% fallisce è un modo gentile per descrivere un cimitero di ambizioni, un massacro di buone intenzioni tecnologiche: “a settembre mi metto a dieta” è il parallelo di “a settembre apro una startup che cambierà il mondo”.
La verità, quella che nessuno osa pronunciare ad alta voce, è che la maggior parte di queste “startup” non sono mai state vere aziende. Erano esperimenti di laboratorio, costosi hobby tecnologici mascherati da imprese, guidati da geni del codice che non avevano la minima idea di come si costruisce un business.
Con la nostra startup abbiamo vinto un hackathon
I più esperti investitori ormai esclamano “sticazzi” a questo tipo di affermazioni, dato che questo tipo di “premi” mascherano la causa di morte più comune, più prevedibile e meno discussa: la suicida assenza di acume commerciale. Fare la gara a chi sputa più lontano ad un evento per tecnici non significa avere un modello di business sostenibile.
Per chi volesse approfondire l’esclamazione consiglio un video di Marco Giallini sul tema.
Una startup fondata e guidata esclusivamente da tecnici non è semplicemente destinata a fallire; è già morta in partenza. Il suo fallimento non è una questione di se, ma di quando finiranno i soldi degli investitori o la pazienza dei fondatori. Serve strategia, serve un’anima commerciale, serve un bisogno reale e non fittizio, aspetti che il più delle volte non sono minimamente nelle corde di un tecnico, che pensa più alla velocità del proprio codice che ad ascoltare quanto il mercato gli urla.
In una recente intervista Enrico Pandian ha ricordato la strategia delle 2 settimane: “Se non riesci a validare la tua idea in 2 settimane, è probabile che tu stia costruendo un castello di sabbia”.
Per chi volesse approfondire il pensiero di Pandian suggerisco questa intervista nella quale è ben spiegato il concetto di validazione rapida.
L’Anatomia di un fallimento annunciato: la piaga mortale delle startup “Tech-Only”
Ripartiamo dal concetto di base usando l’analisi di CB Insights, ripresa in parte da molte associazioni come il Verona Agrifood Innovation Hub: le startup muoiono per “assenza di bisogno di mercato” o per “esaurimento dei fondi”.
Quando si fanno queste analisi si usa un gergo politicamente corretto, tentando di oscurare la vera natura del problema. Qui non abbiamo questi vincoli e possiamo affermare senza filtri che non è il mercato a essere assente: è il fondatore che non si è preoccupato di cercarlo. I fondi non si “esauriscono” per magia: vengono bruciati da decisioni strategiche disastrose. Se fino a ieri passavi la tua giornata a mettere in fila dei bit, non puoi svegliarti ed essere, d’incanto, il mago della strategia aziendale.
Essere irrilevanti (No Market Need): creare soluzioni di cui nessuno ha bisogno
Questa feroce evidenza si è manifestata in modo brutale nel mondo delle blockchain: centinaia di soluzioni che davano garanzie di cui nessuno sentiva il bisogno, se non le persone che avevano costruito la startup.
Idee arrivate troppo presto o troppo tardi? Non lo sapremo mai, ma la cosa che sappiamo è sicuramente che sono idee che interessano a pochi e non alla platea smisurata verso la quale si proponevano.
Nel mondo dell’AI siamo nella stessa situazione: un numero infinito di prodotti, ormai troppo simili. Questa volta però abbiamo il vantaggio che l’uomo della strada ha la netta sensazione che siano strumenti in grado di aumentare il proprio valore e dove c’è percezione di valore può esserci mercato.
L’assenza di un bisogno di mercato è la causa di morte numero uno: una percentuale impressionante di startup, i cui numeri girano nell’intorno del 40%, è il segno tangibile che si possono avere idee brillanti, che nella maggior parte dei casi lo sono solo dentro il nostro computer e non nella testa delle persone.
Questo non è un incidente di percorso; è un omicidio premeditato della propria idea, perpetrato da fondatori innamorati della loro soluzione tecnologica ma completamente disinteressati al problema che dovrebbe risolvere.
Questo fenomeno, noto come “tech-solutionism”, è la malattia professionale dei team tecnici. Essi sono addestrati a risolvere puzzle complessi e a creare architetture eleganti; non sono addestrati a uscire dall’ufficio per verificare se a qualcuno, nel mondo reale, importi qualcosa della loro creazione.
Un’illuminante ricerca accademica pubblicata su PubMed Why do startups fail? A core competency deficit model ha analizzato decine di documenti scritti da CEO di startup fallite per identificare i deficit di competenze più letali.
I risultati sono sbalorditivi: le due competenze la cui assenza era più strettamente correlata al fallimento erano la “ricerca di informazioni” (Information-seeking) e l'”orientamento al cliente” (Customer service orientation).
Se siete programmatori, software engineer o tecnici, avete forse l’idea di cosa siano questi skill, ma sicuramente non avete dedicato molto tempo al loro affinamento.
Cercare informazioni implica validare attivamente le ipotesi sul mercato, mentre l’orientamento al cliente significa dare priorità ai bisogni degli utenti rispetto alla purezza tecnologica: che un flusso software sia ottimizzato interessa a un cliente quanto sapere se il colore della vostra cucina è rosso oppure giallo. Se invece manca (o non funziona) il campo “indirizzo di consegna”: sì, questo sì che è un grande scompenso per la vostra soluzione software.
Un team composto esclusivamente da tecnici è, per sua stessa natura, strutturalmente carente in queste aree vitali. Pertanto, il “No Market Need” non è un fallimento del mercato; è un fallimento diretto e inequivocabile del team nel compiere le funzioni commerciali più basilari.

Un team omogeneo è destinato a costruire prodotti brillanti ma perfettamente inutili, perché nessuno al suo interno ha il compito, la competenza o l’incentivo a porsi la domanda più semplice e più importante di tutte: “A chi serve?”.
Per gli appassionati di serie TV consiglio “Silicon Valley” che sintetizza meravigliosamente questa dinamica.
Esaurire i fondi (Ran out of Cash) ma essere pieni di codice
L’esaurimento dei fondi è la seconda causa di morte più citata. Parliamo di stime nell’intorno del 30-35%.
Finire i soldi è però un modo elegante per dire che le startup non sono state in grado di generarne di nuovi.
Nel 1999 Jeff Bezos venne intervistato e gli chiesero: “La tua azienda vale miliardi, ma ogni volta che guardo il bilancio vedo che è in perdita: la tua azienda non ha mai fatto profitto” e Jeff risponde in modo serafico “È vero, ma noi stiamo investendo per crescere”.
Se l’azienda fattura, e ogni anno cresce, non è un problema perdere soldi, troverai sempre un investitore. Se gli spiccioli che ti vengono affidati non producono nessun tipo di risultato, il problema è più profondo e sei destinato a prosciugare tutti i tuoi fondi e a chiudere o a venire assorbito da qualcuno che è in grado di far partire il tuo business, ma la tua testa ipertecnica non è in grado di farlo.
Il killer invisibile delle startup è un’equazione matematica completamente sconosciuta ai tecnici:
CAC > CTLV
Il costo di acquisizione di un cliente (Customer Acquisition Cost) è superiore al valore che quel cliente genererà nel tempo (Customer Transactional Lifetime Value).
Un team di soli tecnici può essere ossessionato da metriche di prodotto come l’uptime del server, la latenza o la velocità di caricamento, ma ignorare completamente le metriche di business che determinano la vita o la morte dell’azienda.
L’incapacità di gestire il flusso di cassa è una diretta conseguenza di questa analfabetizzazione finanziaria. I fondatori tecnici, spinti dal desiderio di creare il prodotto “perfetto”, continuano a investire risorse nello sviluppo, assumendo più ingegneri e aggiungendo funzionalità, senza una corrispondente strategia per generare entrate.
In un mio passato molto lontano ricordo una chiacchierata con un’azienda francese che produceva una libreria per Clipper di cui ora mi sfugge il nome. Avevano portato a casa un’enorme commessa che aveva permesso all’azienda un’esplosione positiva: assunzioni, ampliamento dell’offerta e profitti.
Com’è nata questa commessa? Il reparto commerciale aveva intuito una grande opportunità nella vendita di un software a un committente. Quel software non esisteva quando fu richiesto: in un pomeriggio disegnarono con “PAINT” alcune schermate del prodotto, dicendo che esisteva ma che servivano 6 mesi per configurarlo presso il cliente, vista la complessità del progetto.
Bene: il cliente si convinse, firmò il contratto, e nei 6 mesi spostarono tutto il team di progetto nella realizzazione di quell’applicazione che non esisteva, ma che il cliente era convinto fosse pronta.
Ora immaginate un approccio puramente tecnico allo stesso problema:
non abbiamo l'applicazione, ma possiamo farla in 6 mesi
Il risultato tecnico sarebbe identico, ma questa frase, nella testa di un committente, lascia la sensazione che potreste non farcela; dire di averla già ma da personalizzare genera tutt’altra percezione di controllo.
Sulla stessa falsariga circola in rete un’intervista di Claudio Cecchetto che, dopo aver ascoltato la cassetta di “Hanno ucciso l’uomo ragno”, chiese agli 883: “Sono solo 5 brani, ne avete altri 2?” e loro: “sì, sono in studio, andiamo a prenderli e li portiamo”.
In realtà non c’erano: si chiusero per due giorni in una stanza e ne uscirono con altre due canzoni.
Dire “non abbiamo nulla, ma possiamo farle in 2 giorni” avrebbe trasmesso incertezza e forse non avrebbe creato l’opportunità che invece riuscirono a cogliere.
Ma un tecnico non avrebbe mai detto qualcosa del genere: per dirla ci voleva qualcuno che, in fondo, era più un imprenditore che un tecnico.
Cos’è il genio? Come diceva il Perozzi:
Fantasia, intuizione, decisione e velocità di esecuzione
La Piaga dell’Invisibilità (Poor Marketing)
Se da alcuni punti di vista il mantello dell’invisibilità è un vantaggio non trascurabile, lo sa bene Harry Potter e le innumerevoli volte in cui lo ha indossato, ma se hai un’azienda: avere un prodotto che nessuno conosce non è qualcosa di cui vantarsi.
Il 14% delle startup fallisce per questo male oscuro. Se segui il mantra: “se lo costruisci, loro verranno” (build it and they will come), sei destinato a presentare il tuo prodotto solo nei salotti di altri nerd come te.
I fondatori tecnici spesso nutrono un profondo disprezzo per il marketing, considerandolo “fuffa”, manipolazione disonesta o, nel migliore dei casi, un’attività secondaria da fare “più tardi” quando il prodotto sarà perfetto. No: questa è una condanna a morte. Il prodotto perfetto non esiste. Pensate a molti strumenti che avete iniziato a usare: le prime versioni erano limitatissime, eppure vi siete agganciati subito, seguendole a livello stalking.
Secondo Peter Thiel, co-fondatore di PayPal:
La causa numero uno per il fallimento delle aziende è la scarsa distribuzione, non il prodotto
Non abbiate paura di far conoscere il vostro prodotto, di allearvi con chi ha una catena di distribuzione, una forza vendita, un marketing potente: sarà lui che vi darà la possibilità di espandervi e non il vostro prodotto.
L’incapacità di fare marketing non è una semplice lacuna di competenze: è un pregiudizio culturale, un punto cieco ideologico. Nell’analisi dei fallimenti emerge un tema ricorrente: l’incapacità di fare marketing era funzione di fondatori a cui piaceva programmare o costruire prodotti ma non gradivano l’idea di promuoverli.

Team sbagliato (Not the Right Team)
Avere il “team sbagliato” è una delle principali cause di fallimento, responsabile della chiusura di quasi un quarto delle startup.
Avere un team sbagliato non significa un team di persone incompetenti, ma un team troppo omogeneo: immaginate una partita di calcio con una squadra formata da soli attaccanti: tutti fenomeni, ma incapaci di contrastare la squadra avversaria. La sconfitta diventa un elemento ineluttabile.
Il vero problema, quasi sempre, è la mancanza di un co-founder con DNA commerciale: se siete un team di soli programmatori uno di voi deve buttare la tastiera, o meglio dovete trovare un NON programmatore, qualcuno che non è in grado di scrivere un “Hello World” (neppure con ChatGPT) ma è in grado di vendere frigoriferi agli eschimesi.
Una delle aziende di amici che ho visto maggiormente crescere è composta da una mente tecnica brillante e da un commerciale con una grande visione di mercato, la cui unione ha creato un equilibrio vincente.
Case Study: Stripe – I Programmatori che Impararono a Vendere
A prima vista, Stripe sembra l’eccezione che conferma la regola. Fondata da due fratelli irlandesi, Patrick e John Collison, entrambi prodigi della programmazione, è un’azienda costruita da tecnici per altri tecnici (gli sviluppatori).
Se però non ci soffermiamo a questa analisi grossolana, scopriamo che il loro successo non contraddice la nostra tesi, ma la rafforza in modo ancora più potente.
I fratelli Collison non hanno avuto successo nonostante fossero tecnici; hanno avuto successo perché hanno unito la loro genialità tecnica a un’eccezionale abilità commerciale e strategica.
Hanno capito che dovevano venderla attivamente. La loro strategia di go-to-market iniziale, ora leggendaria e conosciuta come la “Collison Installation”, è un capolavoro di founder-led sales.
Quando incontravano un potenziale cliente, non gli facevano una presentazione in PowerPoint. Gli chiedevano il portatile, e in pochi minuti, davanti ai suoi occhi, integravano Stripe nel suo prodotto.
Invece di parlare del valore, lo dimostravano in modo inequivocabile.
Smettetela di Scrivere Codice, Iniziate a Vendere
Essere un bravo programmatore non basta, non basta saper produrre soluzioni, serve un’anima marketing, un’anima di vendita che non ha le radici in un linguaggio di programmazione, ma in esperienze e studi diversi.
Il più grande venditore che ho conosciuto era un animatore di villaggi estivi: aveva una grande dote di empatia e simpatia. Ti faceva parlare, capiva i tuoi bisogni e sapeva come persuaderti.
Se siete un gruppo di programmatori cercate qualcuno così, che esca brutalmente dai vostri schemi, che sappia valorizzare i vostri prodotti e parlare alle persone. Cercate qualcuno con una rete di vendita che sappia convogliare ciò che state costruendo. A quel punto la strada diventa in discesa e soprattutto avrete un team più ampio, capace di affrontare meglio le sfide del mercato.

A un programmatore non serve un clone, serve un partner, serve parlare con i potenziali clienti e capire cosa cercano, non serve scrivere codice se non sappiamo in che direzione andare: meglio perdere giornate a parlare, che giornate a scrivere codice che poi butteremo perché non soddisfa nessun requisito.
Il mondo è pieno di codice elegante. Ciò che scarseggia sono le aziende capaci di trasformare quel codice in valore reale per i propri clienti.
Smettetela di nascondervi dietro il vostro editor di testo. Uscite e vendete. È l’unico modo per non finire nel cimitero dei geni.