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Agostino SabatinoNovembre 26, 2025 5 min di lettura

Il sussurro di ciò che ci circonda: come il C permea la nostra vita

Linguaggi di programmazione
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È mattino. Fuori piove, la stanza è ancora immersa nel buio, e da qualche parte — nascosto in un
condominio di silicio — un piccolo gruppo di transistor che tutti chiamano timer si prepara al suo
momento.
Sta per generare un evento, quel famoso “match” tra il numero che cresce nel suo contatore e quello inciso in memoria. Il risultato?

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Linguaggi di programmazione


L’ultima cosa che vorremmo sentire a quell’ora: la sveglia.

Mentre il suono taglia il silenzio, in un altro dispositivo della casa un altro cervello di silicio si
scrolla di dosso la notte: il SoC del router.
È sveglio da ore, in realtà, a smistare pacchetti che arrivano da ogni direzione — notifiche,
messaggi, reel di Instagram che premono per raggiungere uno smartphone che dorme solo in
apparenza, ma continua a pulsare nel suo risparmio energetico.
È l’inizio della solita routine e, su di una mensola, una piccola IP cam segue la scena nel suo modo
infallibile: un sensore d’immagine, un’ottica che si adatta alla scarsa luce, un encoder che comprime ogni fotogramma senza lamentarsi.
Ci osserva entrare in cucina ogni mattina, ancora mezzi addormentati, mentre tentiamo di
convincere la macchina del caffè a essere più veloce del nostro metabolismo.

Ed è solo allora che la resistenza inizia a scaldarsi con la meticolosità di chi ripete lo stesso compito da anni, mentre il suo microcontrollore misura la temperatura più volte del necessario, come se non si fidasse del primo valore letto dall’ADC.
Non è solo la resistenza che lavora: dietro quella semplicità si nasconde un piccolo capolavoro
matematico.

Molte macchine da caffè usano un algoritmo chiamato PID, una sorta di “termostato intelligente” che non si limita a misurare la temperatura, ma la anticipa.

Prevede quanto calore servirà nei prossimi secondi, corregge gli errori in tempo reale e stabilizza
l’acqua al grado esatto, perché pochi gradi di differenza cambiano tutto nel gusto.
È un esempio perfetto di logica essenziale fatta di somme, errori e coefficienti, scritta in C dentro
pochi kilobyte di memoria.
Intorno a noi tutto procede secondo logiche altrettanto precise.
Il frigorifero mantiene la sua calma glaciale: i suoi sensori aggiornano il termostato con una
costanza che non richiede conferme.
La lavatrice, più in fondo nel corridoio, segue la sua coreografia programmata — un ciclo dopo
l’altro, con la stessa determinazione di un firmware che non sbaglia mai un passo.
È una routine domestica che sembra naturale, scontata, quasi organica.
Eppure, appena sotto la superficie, esiste un mondo che ragiona al ritmo dei clock e degli interrupt.


Ogni dispositivo usa la stessa lingua essenziale, fatta di registri, confronti e bit che scorrono in
silenzio.


Un lessico antico che torna identico da decenni.
È quella lingua a dare forma a questi gesti invisibili — il contatore del timer, la lettura del sensore,
la misura della temperatura, lo streaming della IP cam.

Un codice che vive vicino all’hardware più di chiunque altro, e che continua a guidare tutto, senza
mai chiedere attenzione: il linguaggio C.


È l’universo dei sistemi embedded: piccoli circuiti di elettronica programmata che svolgono in
background tutte le operazioni necessarie a far sì che la tecnologia si integri nella nostra vita di tutti i giorni, in un linguaggio che per molti suona “vintage”, ma è tutt’altro che questo.
Il linguaggio C, nato negli anni ’70, ancora oggi è uno degli strumenti più potenti che consentono a
chi progetta sistemi integrati di esprimere con precisione ciò che un dispositivo deve fare.
E non è un caso: il mondo embedded vive di vincoli, di tempi stretti, di risorse minime.
Ogni sensore, ogni attuatore, ogni microcontrollore è un piccolo ecosistema di elettronica
programmata che deve funzionare con pochissima memoria, consumando quasi nulla, senza margini di errore.

Ed è qui che il C mostra la sua forza.

A differenza dei linguaggi moderni, ricchi di astrazioni, librerie e comfort, il C è diretto. Ti mette in
mano il controllo dell’hardware così com’è: memoria, registri, periferiche, interrupt.
Non aggiunge strati, non complica le cose. È essenziale come i dispositivi che governa.
A questo punto viene spontaneo chiedersi: perché proprio questa lingua?
Quando un progettista embedded lavora, deve sapere con esattezza cosa accade dentro il
microcontrollore: quali bit si muovono, quanto tempo passa tra due istruzioni, quanto consuma ogni operazione.
Il C permette tutto questo.
Permette di scrivere codice che non solo “funziona”, ma funziona nei tempi, nelle condizioni e nei
vincoli imposti dall’hardware.
Nella casa che abbiamo appena attraversato, nulla è casuale: ogni timer scatta con precisione, ogni sensore legge valori specifici, ogni periferica reagisce nell’intervallo previsto.
Tutte queste operazioni sono scritte in C: frammenti di codice che possono essere minuscoli, ma
estremamente deterministici.

Ogni funzione è come un ingranaggio: piccola, essenziale, ma indispensabile.


Ed è proprio questo il punto: il mondo embedded non ha bisogno di linguaggi complessi, ha
bisogno di controllo.
Lì non c’è spazio per interpretazioni, garbage collector o sorprese a runtime.
C’è bisogno di firmware che si comporti allo stesso modo oggi, domani e tra dieci anni, anche in
dispositivi che non riceveranno mai un aggiornamento.

Per questo, mentre il software “di superficie” evolve alla velocità delle mode tecnologiche, il livello più profondo — quello che fa battere il cuore dei dispositivi — continua a parlare C.
È una lingua che richiede disciplina, chiarezza, attenzione ai dettagli.
E quando ci fermiamo a guardare la nostra giornata con un po’ più di attenzione, ci accorgiamo che la storia non riguarda solo una sveglia, un router o una macchina del caffè.
Riguarda tutto ciò che ci circonda: dal cancello automatico al termostato dell’ufficio, dalla bilancia del supermercato alla pompa del carburante, dal POS che usiamo per pagare al badge che usiamo per entrare in azienda o prima ancora di toccare il volante quando decine di centraline hanno già iniziato a parlarsi.

Lo fanno tramite il CAN-bus, una rete interna dove ogni modulo — freni, fari, climatizzatore,
motore, infotainment — invia e ascolta messaggi in tempo reale.
Gran parte del mondo fisico che utilizziamo ogni giorno — quello che davvero fa cose — è
sostenuto da microcontrollori che parlano C.
Sono loro che leggono, misurano, attivano, comandano, regolano.
Lavorano nel silenzio degli elettrodomestici, dietro gli sportelli automatici, dentro i terminali di
pagamento, negli impianti industriali, nei sistemi di sicurezza, nei sensori che non vediamo ma da
cui dipende tutto.
E la cosa sorprendente è che non ce ne rendiamo conto.

Viviamo immersi in una rete di dispositivi che prendono decisioni costanti in nostro nome, usando
un linguaggio nato più di mezzo secolo fa e ancora insuperato quando si tratta di affidabilità e
controllo diretto dell’hardware.
La tecnologia che diamo per scontata funziona perché questi piccoli sistemi embedded continuano a fare il loro lavoro con una precisione che non cambia nel tempo.
E dietro quella precisione c’è quasi sempre lo stesso strumento: il C.
Semplice, essenziale, concreto.


Una lingua invisibile che sostiene la parte più concreta della nostra vita digitale.


Così, mentre scorriamo uno schermo, accendiamo una luce o passiamo un prodotto alla cassa, non pensiamo a ciò che succede dietro.
Ma la verità è che, senza quel codice scritto vicino al metallo, la nostra quotidianità moderna
semplicemente non esisterebbe.
E forse è questo il dato più sorprendente di tutti:
la tecnologia che cambia il mondo non è sempre quella in prima linea.

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