Un vecchio detto recita: “Chi trova un amico trova un tesoro”. Il significato positivo di questa frase risiede nel fatto che l’amicizia, quella vera, quella che ti fa dormire tranquillo perché sai che qualsiasi cosa succederà avrai sempre un amico su cui contare, che ti offre aiuto per volere e non per costrizione, è una cosa rara.
Allo stesso modo, un buon programmatore è un tesoro per un’azienda. È una persona che, grazie alle sue competenze tecniche, alla sua esperienza e alla sua capacità di problem solving, può fare la differenza tra il successo e il fallimento di un progetto.
Se volessimo però guardare al rovescio della medaglia, “Chi perde un programmatore perde un tesoro”. Troppo spesso si sottovaluta la perdita di qualcuno che nel tempo ha accumulato esperienza e competenze all’interno dell’azienda e ora decide di andare altrove.
Troppe volte ho visto aziende avere dei contraccolpi a causa di una persona che lasciava l’azienda, che fosse un programmatore, un project manager o un analista. Questo articolo vuole essere una riflessione su cosa significa perdere un programmatore e su come le aziende possano evitare che ciò accada.
La vita professionale di un programmatore
I programmatori, come tutti i professionisti, attraversano diverse fasi significative durante la loro carriera lavorativa. Spesso però è possibile individuare un pattern ripetitivo che si manifesta con particolare frequenza in questo settore.
La prima fase è quella dell’inserimento in un progetto. Si tratta di un periodo iniziale, più o meno lungo, dove la persona viene introdotta nel contesto lavorativo. È un momento caratterizzato da studio intenso alternato a momenti di lavoro pratico, spesso sotto la supervisione di un programmatore più esperto che funge da guida.
Segue poi l’inizio delle attività lavorative vere e proprie. In questa fase il programmatore inizia a lavorare sui primi task assegnati, prende confidenza con il progetto e con le persone del team. Non si è ancora pienamente produttivi, ma si inizia a comprendere le dinamiche del progetto e del gruppo di lavoro.
La terza fase è quella della maturità professionale. Il programmatore inizia a lavorare in completa autonomia, sa con chi deve interfacciarsi, conosce a fondo i processi aziendali, comprende le problematiche e sviluppa soluzioni efficaci. È un momento di grande crescita e soddisfazione professionale.
Infine arriva la fase di assestamento, dove il programmatore ha ormai in mano quasi tutto il codice del progetto. L’emozione e la curiosità che caratterizzavano le fasi iniziali tendono gradualmente a diminuire. Si passa da una situazione in cui “tutto è possibile”, pervasa da euforia e curiosità, ad una fase di maggiore consapevolezza, fino ad arrivare talvolta a pensare che “tutto è già stato fatto” o che “nulla si può più fare”.
È proprio in questo momento che il programmatore inizia a interrogarsi, ponendosi giustamente delle domande sul proprio futuro professionale, sul lavoro attuale, sul progetto e sull’azienda.
Come dice Aristotele nel libro “Etica Nicomachea”: “La felicità non è un momento o uno stato che si raggiunge una volta per tutte, ma un processo che dura tutta la vita e richiede costante impegno nell’esercizio della virtù.”
Per questo motivo le aziende dovrebbero intervenire in modo proattivo per supportare i propri programmatori in questa fase.
La perdita di stimoli
Questa fase rappresenta uno dei momenti più critici della vita lavorativa: la graduale perdita di stimoli, ambizioni, prospettive e obiettivi. Tutto appare grigio, o comunque cristallizzato in una situazione che sembra immutabile.
Ci sono professionisti che affrontano questa fase in modo costruttivo, incanalando le proprie energie nel miglioramento del codice esistente, nella migliore strutturazione del progetto, nell’ottimizzazione dei processi, nel perfezionamento della documentazione. Si dedicano a quelle attività del backlog che troppo spesso vengono rimandate e che trovano spazio solo nei momenti di apparente stasi.
Altri invece iniziano a sviluppare un profondo senso di sconforto, di noia, di frustrazione. Cominciano a guardare oltre, alla ricerca di nuovi stimoli, nuovi progetti, nuove realtà aziendali. E dallo sconforto al salto verso una nuova azienda, il passo è sorprendentemente breve.
Questo processo, a ben vedere, non è completamente negativo. In molte professioni si arriva ad un punto di saturazione che spinge al cambiamento. Il vantaggio peculiare del programmatore è che, se possiede le competenze adeguate, può effettuare questo cambiamento con relativa facilità rispetto ad altre professioni. Può trasformare la propria situazione lavorativa in modo rapido e, spesso, senza nemmeno dover abbandonare la propria postazione di lavoro.
Perdere un programmatore
Contrariamente a quanto si potrebbe superficialmente pensare, un programmatore non rappresenta semplicemente un elemento sostituibile nella catena del valore di un’azienda. Questo è particolarmente vero in contesti dove il team di lavoro non è molto numeroso e le competenze sono altamente specifiche, racchiuse nella mente di poche persone chiave.
Non tutti lavorano in grandi aziende, ben strutturate e ridondate. Spesso ci si trova in piccole aziende, dove il team di sviluppo è sotto la decina di persone e dove la perdita di un programmatore può avere conseguenze devastanti.
A complicare ulteriormente la situazione, ci sono i progetti stessi che non hanno una documentazione adeguata, sono frutto di anni di lavori sovrapposti e dove i processi non sono strutturati in modo ottimale. In queste situazioni la conoscenza olistica, ove presente, rimane concentrata nelle mani di un numero ristretto di persone.
In questo scenario, perdere un programmatore diventa un problema serio, perché si perde veramente un tesoro e, in alcuni casi, persino il controllo effettivo del progetto che stava seguendo.
Anche nelle realtà aziendali più strutturate, dove i team sono ben organizzati e il codice è accuratamente documentato e testato, emerge la tendenza a ricercare qualcuno che sappia replicare esattamente le competenze e le attività del programmatore uscente.
Questa aspirazione si rivela spesso irrealistica, poiché ogni programmatore possiede il proprio stile distintivo, le proprie abitudini consolidate, le proprie competenze specifiche. Non è affatto semplice trovare qualcuno che possa sostituirlo in modo perfettamente sovrapponibile.
In queste situazioni si sente frequentemente ripetere: “sono mesi che cerco qualcuno, ma non lo trovo”. Questa affermazione, apparentemente banale, racchiude in realtà diverse verità significative: evidenzia come la persona da sostituire possedesse competenze specifiche che il team attuale non riesce a coprire e suggerisce che probabilmente il compenso che percepiva era sottodimensionato rispetto al reale valore che apportava all’organizzazione.
Un altro aspetto frequentemente sottovalutato in questi frangenti è l’aspettativa che il nuovo programmatore possa, sin dal primo giorno, coprire totalmente o parzialmente il lavoro del predecessore. Sorprendentemente, c’è ancora chi coltiva questa illusione.
È fondamentale invece mettere in conto che, per un periodo significativo, il team non potrà mantenere gli stessi livelli di performance. Questa problematica diventa ancora più critica se il programmatore in uscita è uno dei più esperti o se il team è composto da un numero limitato di persone.
Come evitare di perdere un programmatore
La consapevolezza del valore di un programmatore dovrebbe spingere le aziende a creare un ambiente lavorativo che favorisca la sua permanenza e il suo sviluppo professionale. L’elemento fondamentale in questo senso è garantire un adeguato livello di autonomia nel lavoro quotidiano. Un programmatore dovrebbe avere la libertà di organizzare il proprio tempo e le proprie attività, scegliendo le modalità più efficaci per raggiungere gli obiettivi stabiliti.
Questa autonomia non significa isolamento o mancanza di coordinamento con il team, ma piuttosto la possibilità di esprimere al meglio la propria creatività e le proprie competenze tecniche senza eccessive costrizioni procedurali.
L’azienda deve inoltre assicurarsi che il programmatore abbia a disposizione tutti gli strumenti necessari per svolgere al meglio il proprio lavoro. Questo significa non solo fornire hardware e software adeguati, ma anche garantire l’accesso a risorse di formazione, documentazione e supporto tecnico.
Troppo spesso le aziende sottovalutano l’impatto negativo che strumenti obsoleti o inadeguati possono avere sulla motivazione e sulla produttività di un programmatore. La frustrazione derivante dal dover lottare quotidianamente con limitazioni tecniche può essere un forte incentivo a cercare opportunità altrove.
Platone all’interno de “La Repubblica, libro IV” diceva, parlando dei pentolai: “Se a causa della povertà non potrà procurarsi gli strumenti o altri utensili indispensabili alla sua arte, realizzerà prodotti più scadenti e renderà artigiani inferiori i figli o altri a cui insegnerà il proprio mestiere.”
Un aspetto cruciale, spesso sottovalutato, è quello di far sentire il programmatore veramente parte del progetto su cui sta lavorando. Questo va ben oltre il semplice coinvolgimento tecnico: significa renderlo partecipe delle decisioni strategiche, ascoltare le sue opinioni sulle scelte architetturali, coinvolgerlo nella pianificazione delle attività future.
Un programmatore che si sente veramente parte del progetto sviluppa un senso di appartenenza e responsabilità che va oltre il semplice rapporto professionale. Questo legame emotivo con il progetto e con il team può essere un potente fattore di retention, specialmente nei momenti di difficoltà o quando si presentano opportunità alternative.
Quando un programmatore percepisce di avere voce in capitolo nelle decisioni che riguardano il suo lavoro, di poter contare su strumenti all’altezza delle sfide che deve affrontare e di essere parte integrante di un progetto significativo, le probabilità che cerchi alternative professionali diminuiscono sensibilmente. Non si tratta solo di trattenere un professionista qualificato, ma di creare le condizioni perché possa esprimere al meglio il proprio potenziale, contribuendo così non solo al successo del progetto ma anche alla crescita dell’intero team.
Conclusioni
Il percorso professionale di un programmatore rappresenta un viaggio complesso, caratterizzato da diverse fasi di crescita, momenti di entusiasmo e periodi di riflessione. È importante che le aziende siano consapevoli di questi momenti critici e si impegnino attivamente a creare un ambiente di lavoro che favorisca la permanenza e lo sviluppo dei propri programmatori.
La metafora del tesoro, con cui abbiamo aperto questa riflessione, acquista ancora più significato quando si considera l’insieme di conoscenze, esperienza e valore che un programmatore porta con sé. Non si tratta solo di competenze tecniche, ma di un patrimonio fatto di comprensione profonda dei processi, delle dinamiche di progetto e delle relazioni all’interno del team.
Quando un’azienda perde un programmatore, non perde semplicemente una risorsa, ma un pezzo della propria storia e del proprio futuro.
La sfida per le organizzazioni moderne non è quindi solo quella di attrarre talenti, ma di creare un ambiente in cui questi possano crescere, esprimersi e trovare continui stimoli. Solo attraverso un impegno concreto nel valorizzare i propri programmatori, fornendo loro autonomia, strumenti adeguati e un reale senso di appartenenza, le aziende possono sperare di conservare questo tesoro.
In un mondo dove la tecnologia evolve rapidamente e le competenze sono sempre più preziose, investire nella soddisfazione e nella crescita dei propri programmatori non è più solo una scelta, ma una necessità strategica per il successo di lungo termine.