Ha senso essere leali nei confronti della propria azienda? Si possono applicare principi etici in un contesto in cui conta solo l’efficienza? Quanto pesa la propria forma mentis (educazione) nel valutare se si stanno facendo le scelte giuste. Siete Jack Sparrow o Edward Smith…
Il segreto del mio successo…
Lo storytelling sul mondo del lavoro è molto cambiato negli ultimi anni.
Utilizzando il mondo del cinema , specialmente quello americano, possiamo fare un excursus abbastanza illuminante su come la percezione dell’azienda e della lealtà verso di essa si sia trasformata lentamente ma radicalmente.
Negli anni 80-90 c’era il giovane che entrava in una azienda e dopo qualche mese di peripezie, lavorando 48 ore al giorno, ne diventava l’amministratore delegato.
Quasi sempre con le fattezze di Michael J. Fox (Il segreto del mio successo 1987) , o per parità di genere Melanie Griffith (Una donna in carriera, 1988) il nostro eroe diventava subito il beniamino del cda scalzando il vecchio amministratore delegato e a volte rubandogli anche compagni e amanti.
L’azienda in cui lavoravi era la tua famiglia e avevate bisogno l’uno dell’altro per ottenere risultati, il divorzio e/o il licenziamento erano ancora portatori di grossi traumi se non alla base di tragedie.
Nel 1997 “Will Hunting” invece fa un bel discorsetto ai reclutatori della national security agency: “Diciamo che lavoro alla N.S.A. Qualcuno mette un codice sulla mia scrivania, qualcosa che nessun altro può decifrare. Forse ci provo e forse lo rompo. E sono davvero felice con me stesso, perché ho fatto bene il mio lavoro. Ma forse quel codice era la posizione di qualche esercito ribelle, in Nord Africa o nel Medio Oriente. Una volta raggiunta quella posizione, bombardano il villaggio dove si nascondevano i ribelli e millecinquecento persone che non ho mai incontrato, con cui non ho mai avuto problemi, vengono uccise. Ora i politici dicono: “Oh, manda i Marines a mettere in sicurezza l’area” perché non gliene frega niente. Non sarà il loro figlio laggiù a farsi sparare. Proprio come non erano loro quando hanno chiamato il loro numero, perché stavano facendo una missione nella Guardia Nazionale. Sarà qualche ragazzino di Southie che si è preso una scheggia nel culo.”
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Primi vagiti di una ribellione dentro l’establishment
Negli anni 2000 il tema viene un pò snobbato: dopo il 2001 i temi principali sono tutti sul terrorismo, sulle sue radici e su come riprendersi. Fa eccezione “Tra le nuvole” un tagliatore di teste, interpretato da George Clooney, rischia a sua volta di essere licenziato quando arriva una giovane collega con idee innovative.
Al di là di una vena di solitudine un po fuori tempo massimo, colpiscono i discorsi “motivazionali” che Clooney fa alle persone che deve licenziare tra cui “quando avrebbe smesso di lavorare qui per tornare a fare quello che la rendeva felice?”
Nel 2011 anche i manager piangono : in “The Company Men” Tommy Lee Jones chiede spiegazioni sul licenziamento di vecchi dipendenti con cui hanno fondato l’azienda contrapponendoli alle spese faraoniche per nuovi uffici e maggiori stock agli azionisti. L’ad gli dice a muso duro che per il lavoro fatto sono stati tutti pagati il giusto e che è tempo di fare altre scelte, dopo di che licenziano anche Jones il quale non si perde d’animo e fonda un’altra azienda in diretta concorrenza con la vecchia.
Il messaggio qui è “la vostra azienda vi sta usando e prima o poi vi butterà nel secchio dell’immondizia, la vostra lealtà ha valore solo per voi”.
“Pirates! Not the Navy”
Negli altri media sono ancora più duri. Una pietra miliare è la striscia di Dilbert in cui il geniale Scott Adams fa dire al suo personaggio “Le aziende hanno smesso di truffare i clienti negli anni 90, quando hanno capito che è più profittevole fregare i propri dipendenti”.
Ancora più iconica la foto del cofondatore di Apple che fa il dito medio alle big di quei tempi, aziende che forse più di tutti hanno rappresentato quella “grande famiglia” che dagli anni 80, non solo sono state viste con sospetto, ma addirittura osteggiate con scherno. Il motto “Pirates! Not the Navy”, che riecheggia in ogni discorso motivazionale della Silicon Valley sta al mondo dei dev come un qualsiasi titolo di Bob Dylan agli anni 60 : fuoriluogo, male interpretato e vituperato 🙂
Ma nella vita reale quando abbiamo smesso di pensare alle aziende come una famiglia allargata che creava forti legami tra i dipendenti e che spesso faceva da paracadute alle varie vicissitudini della vita all’esterno? Che fine hanno fatto i ‘dopolavoro’ che portavano i figli dei dipendenti in settimana bianca o nelle colonie estive, allargando legami di sangue che nemmeno nelle trame dei Borgia?
Andare alle radici di un cambiamento simile non è facile, forse l’acuirsi della disparità salariale tra manager e dipendenti, forse i licenziamenti di massa operati senza troppi complimenti, fatto sta che il clima di sospetto e risentimento è accresciuto al punto tale che le aziende viste come “best place to work” sono diventate molto poche, con buona pace di premi e riconoscimenti concessi con sondaggi più orientati al quieto vivere che alla reale percezione del mondo
“I want you to join….”
Ma se le ‘zaibatsu’ sono diventate inaffidabili ed autoreferenziali, come fa un dipendente ad avere ancora un sentimento di lealtà nei confronti dell’azienda in cui lavora?
La risposta semplice è ‘non cè l’ha’.
Aiutati da un dinamismo molto accentuato nel mercato del lavoro dell’IT, il dev può fare una selezione molto più mirata delle proposte lavorative, dove vengono meno i presupposti di sicurezza e reddito mentre avanzano questioni nuove quali know how, libertà di orario e di luogo di lavoro. Visto che anche i parametri che qualificano la felicità vengono adottati come indicatori più generali, aziende che non tengono in considerazione queste problematiche risultano meno appetibili in termini occupazionali o peggio rischiano di esserlo per una fascia di dev meno brillante, che invece, forti del proprio know how, migrano verso condizioni lavorative che li mettano a proprio agio.
Su questo argomento è uscito in questi giorni il 7° rapporto censis sul welfare aziendale che pone l’accento sulle nuove soluzioni a fronte di nuovi valori che pervadono la società italiana, che rappresenta abbastanza bene una comune realtà europea.
Si parte illustrando la fase storica del mercato dove il record di occupati, la creazione di lavori più stabili e un massiccio coinvolgimento delle donne, fa da contraltare a una diffusa disaffezione al lavoro. L’attrattività e la retention dei lavoratori come elemento prioritario per le aziende, infatti, deve innanzitutto fare i conti con l’esigenza, da parte dei propri impiegati, di poter gestire al meglio il proprio tempo non solo con smart working, riduzione di orario e attenzione alle singole esigenze, ma anche solo snellendo tempi tecnici legati a burocrazia e adempimenti introducendo nuovi strumenti.
Chiaramente il rapporto enfatizza il ruolo del welfare aziendale come strategico nel riequilibrare il rapporto dev (lavoratore) azienda.
Con la scarsità della risorsa tempo, l’azienda che ne consuma meno e meglio diventa automaticamente l’azienda più appetibile e quindi quella a cui si riesce a rimanere più fedeli. “ L’amplificata attenzione delle persone per il proprio benessere soggettivo non passa in via prioritaria da carriere scintillanti nel lavoro, laddove possibili, ma dalla capacità di recuperare tempo per sé stessi, la famiglia, le cose che appassionano. “(cit)
Cosa c’è che non va..
Naturalmente la “ricerca del tempo perduto” è l’elemento predominante ma non l’unico. I dati sono impietosi per quanto riguarda le retribuzioni: il 62% degli occupati asserisce di non poter soddisfare le proprie ambizioni con l’attuale salario. Per quanto riguarda il più ristretto ambito dell’IT invece è un dato forse più interessante il fatto che il più del 43% delle persone ritiene di svolgere un lavoro inadeguato alle proprie capacità/titolo di studio. In questa percentuale secondo me alberga una buona parte dei dev che lamentano stack obsoleti, prodotti con grossi debiti tecnici e mancanza di adozione di innovazione da parte del management. Chiaramente il dato per cui il 30% ritiene che il proprio lavoro sia a rischio perchè minacciato dall’innovazione, con l’AI in cima a tutti gli incubi possibili, fa riflettere su come le prospettive cambino a seconda dell’ambito.
Essere leali verso la propria azienda ha senso solo quando non vi riconoscete nei quattro gruppi di cui sopra :
- il tempo dedicato al lavoro, spostamenti inclusi, è quello che pensate sia giusto
- la vostra ral vi soddisfa
- fate il lavoro per cui avete investito il vostro tempo e che, in qualche modo, sentite “vostro”
- siete costantemente in cima ad una curva di apprendimento ripida che vi permette di stare tranquilli su obsolescenza e nuove tecnologie che minacciano di sostituirvi.
Tutti questi elementi sono alla base della mancanza di attrattiva del mondo del lavoro, cambiando gli ordini di importanza per il lavoratore: si può dimostrare “lealtà” solo dove il welfare sia un elemento predominante e venga parametrato sulle proprie esigenze, istituendo un dialogo sempre più fitto e costruttivo tra la parte HR e il dev.